Judè di mare aperto


Essere judè di mare aperto significa non solo abitare lontani da Bivona, nel Nord in questi giorni trincerato da decreti e posti di blocco, ma anche soffrire, tribolare per i familiari e la comunità intera rimasta a Bivona.

Da quando studio e lavoro fuori non posso fare a meno di preoccuparmi per le cicliche siccità eclatanti, per il maltempo, per la scarsità di olive, per il prezzo delle pesche, ecc. E così per gli sprechi e gli indecorosi “incompiuti” che si ergono a monumenti alla malagestio (in primis il depuratore che non depura). Per i tagli alla sanità da parte della Regione che hanno lasciato solo buchi ormai impossibili da rappezzare e che, in questi giorni, stanno emergendo in tutta la loro portata tragica. E più recentemente per un virus invisibile, ermetico, tradimintusu che forse arriva o forse no; che colpisce i vecchi, dove a Bivona vecchi lo sono quasi tutti.

Ansie che si sommano alla quotidianità generalizzata a tutta la penisola (e quasi a tutto il mondo) della clausura forzata da Covid19, delle distopie fantascientifiche sempre più reali; dell’emersione della fame, nel senso letterale del termine, come quella raccontata dai miei nonni in tempo di guerra. Una fame e un disagio che ci fanno scoprire la nostra fragilità, la dipendenza dagli eventi e dagli altri e che ci costringono reclusi dentro quattro mura. Una solitudine necessaria che ci costringe a fare i conti con le nostre scelte, con il passato, con le mancanze e le dimenticanze. 


Tuttavia, questa quarantena ci sta permettendo di vivere un’intimità più coerente con il partner o i figli, di imparare una nuova lingua, di dedicarci a hobby per troppo tempo lasciati in cantina.

Rubando le parole di una mia amica, questa quarantena ci insegnerà di cosa possiamo fare a meno una volta liberi. Sarà un andare avanti per sottrazione. La quarantena ci sta facendo riscoprire l’essenziale.

Leggendomi dentro, proprio in questi giorni di isolamento forzato in casa, ho finalmente avuto il tempo per fermarmi e riflettere sulle mie personali sottrazioni scoprendo che, paradossalmente ai tempi della clausura domestica, per me essenziale è “Casa”, con la “c” maiuscola.

Così inizio a pensare alle possibili declinazioni della nozione di “Casa”: per me “Casa” è sicurezza ma con un significato fisico, tangibile. Casa è un muro amico, un odore femminino, una porta mai chiusa a chiave. È un luogo, indubbiamente, dove riesci a camminare anche al buio senza inciampare. Casa è la sicurezza che un oggetto, un odore, un colore, un’azione può trovarsi solo in quel luogo.

Per me quel luogo ha una precisa posizione geografica e si chiama Bivona.

Per questo motivo, nei momenti tristi volo a rifugiarmi a casa, così come nei momenti di spaesamento emotivo. Casa per ricaricare la mente dopo mesi di stress lavorativo o per lenire i sensi di colpa di una separazione. Casa è dove si torna a festeggiare, a ritrovare il contatto con la natura, con sé stessi. E non poterlo - e soprattutto volerlo - fare per il bene dell’intera comunità mi rattrista ma mi inorgoglisce ancor di più.

Ad ogni modo, quale che sia la declinazione che viene data, il ritorno alle radici diventa una necessità fisica improrogabile, un’urgenza. E Bivona per molti judè è un’urgenza e come ogni impellente bisogno diventa dovere da adempiere prima possibile. Per tale motivo non stigmatizzo chi è fuggito dal Nord per tornare tra le mura amiche e solidali di Bivona. Non mi ergo a censore, non mi sento di pesare il cuore e le emozioni dei miei concittadini. Chi lo ha fatto spero abbia usato la ragione e calcolato i rischi per la comunità.

Pensando a Casa la mia mente si proietta in avanti, al dopo-coronavirus, quando un abbraccio non sarà più un gesto imprudente. Quando si potrà prendere un aereo per ammirare la terra dall'alto, per muoversi liberi. Insomma, quando si potrà tornare a “Casa” senza sotterfugi o timori, seguendo il consueto rito solito e periodico della scinnuta a Bivona per le vacanze. Io judè di alto mare, fuorisede, emigrato.

Con il sorriso del potrei ma non voglio (e anche del vorrei ma non posso) attuale, ripercorro i passaggi della ciclica scinnuta a Bivona di uno judè di mare aperto come me (e come tanti e tanti bivonesi fuorisede): mettersi d’accordo con i genitori e fratelli per far coincidere le date, con gli amici per giornate di mare e serate da bar, parenti per saluti al sapore di lunghissime chiacchiere davanti a un caffè.

E prima ancora invitare colleghi e amici non bivonesi a provare in prima persona i luoghi perennemente lodati. Il passaparola in fiducia di noi siciliani, dei bivonesi. Noi che ci spendiamo personalmente mettendoci la faccia per attirare gente in Trinacria, una sorta di pro-loco perpetua e mobile che “vende” le bellezze e le bontà dell’isola con la sola forza degli occhi che brillano, come se non ci fosse bisogno di alcuna prova tangibile di tale eccellenza. Il fatto stesso che un luogo, una pietanza, un monumento, una chiesa, una pietra si trovi o provenga dalla Sicilia per ogni siciliano (di scoglio o di mare aperto) è di per sé certificazione di qualità. E come potrebbe dirsi diversamente! Il siciliano, il bivonese, porta la propria terra sempre negli occhi e, in un’evoluzione eugenetica dei ricordi, nella memoria il bello diventa bellissimo, il normale eccezionale, il brutto viene trasformato in folklore. E così viene trasmesso a chi in Sicilia non è mai stato. E così, inoltre, il bivonese lo racconta a sé stesso nei momenti di scoramento geografico.

Pertanto, il judè di mare aperto in attesa di fronte al gate all'aeroporto di Linate o Fiumicino assapora con ansia i propri ricordi e si chiede quali meraviglie troverà, quali racconti si porterà dietro per allietare le serate. Inizia anche a fare la lista della spesa da trasmettere con comunicati culinari ufficiali a mamma o papà perché lu crastu arrustutu dove lo trovi poi fuori dalla Sicilia?

Io bivonese sull'aereo verso Palermo, Trapani o Catania progetto l’itinerario delle vacanze: tanti giorni a casa tra parenti e amici, un giorno si va qui, uno lì. Si fanno programmi, progetti sull'aereo, come se la vacanza in Sicilia fosse un’estensione temporale della vita veloce e dinamica dell’universo parallelo che corre oltre lo Stretto.

Si atterra e già dal ritiro bagagli ci si rende conto che il ritmo si abbassa, le membra si rilassano, lo stomaco si apre, le emozioni si moltiplicano e subentra l’amara sicurezza che tutti i programmi che erano stati stilati saranno perfettamente inutili. Non resterà quindi che annacarsi nei luoghi soliti e sicuri e confermare le già affermate certezze del cuore.

Quel che in origine era quindi una vacanza diventa un pellegrinaggio, un ritorno alle origini a seguito di un richiamo ancestrale al caldo grembo materno. E più il viaggio si fa difficile, lungo o complesso per scali, costi e intrecci di date più la scinnuta assume contorni sacri, quasi un’espiazione per aver lasciato il letto dell’infanzia.

E allora, una domanda mi sorge spontanea: se io mi sento così attaccato alla Sicilia, a Bivona, alle mie radici, se ogni anno inevitabilmente torno a Bivona…perché sono andato via?

Forse perché il proverbio siculo “cu nesci arrinesci” non è fondato su una mera teoria ma su empirismo scientifico rodato da secoli: si sale a Milano per trovare un lavoro sicuro e ben retribuito, per trovare la felicità che Bivona e la Sicilia non sono in grado di donare, e si mettono da parte soldi e ferie per tornare ciclicamente all’ancestralità della propria terra. Anche se ciò comporta ansie, stress e ore di sbattimenti tra aeroporti e stazioni. D'altronde, è pur vero che si parte per tornare. Nella speranza di poter tornare prima possibile. 

A Casa.

                                                                                                                                         Ivo Abate

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