Mandi mandi Bivona: Bivonesitudine in Carnia



È il primo giorno di un nuovo anno scolastico.

Come tutti i docenti precari, mi presento a scuola di buon mattino per prendere servizio. Dopo aver firmato una serie di scartoffie, balsamo per l’anima dei burocrati, vengo accompagnato in classe per conoscere i miei nuovi alunni. Nessuna certezza all'orizzonte: nuova scuola, nuova classe, nuovi alunni, nuovi bidelli. Un nuovo anno da precario, ma lo spirito è sempre quello: dare il meglio di sé.

Al mio ingresso in aula, il solito brusio di sottofondo. «Sarà lui il nuovo prof di Italiano?» «Ma che dite? Lui sarà il nuovo prof di Matematica. Glielo si legge in faccia.» «Ma l’anno scorso abbiamo fatto Matematica e Italiano?». Accompagnato da questo brusio, vado verso la cattedra, poggio il mio portadocumenti e mi posiziono in un punto dell’aula dove possano vedermi e sentirmi tutti. Il silenzio è calato. Devo dire qualcosa. La prima frase è quella più importante. Come il primo album definisce il rapporto tra l’artista e il suo pubblico, allo stesso modo quella frase avrebbe definito il tipo di relazione tra me e loro. Decido per una frase di saluto siciliano-friulano che possa unire il mio mondo con il loro: «Buondì fruts o, se volete, bongiorno picciotti

Riesco a cogliere la loro attenzione. Gli alunni capiscono subito che sono un siciliano trapiantato da qualche anno in Friuli. Mi chiedono di parlare del mio paese di origine e inizio raccontando la mia infanzia a Bivona: di le lunghe jucate per le vie del paese, delle partite di calcio nelle piazze, con i pali della porta fatti da felpe e per traverse linee immaginarie e infinite, che, se tiravi un calcio al pallone Supersantos un po’ più forte e questo schizzava in alto, si aprivano discussioni infinite tra chi sosteneva che fosse stato goal e chi sosteneva animatamente che fosse andato fuori (del resto ancora non c’era il VAR!). E anche delle feste di paese e dei carnevali passati a fare scherzi dispettosi ai nostri amici nascosti dalle maschere, convinti che nessuno potesse mai scoprirci, ma c’era sempre qualcuno che disilludeva le nostre aspettative e puntualmente gridava: «Lu capivu cu è!». 

I ragazzi sono interessati alle mie storie. Qualcuno prende coraggio e mi chiede: «Prof, si sente che le manca il suo paese, ma soprattutto si sente che le mancano i suoi bivonesi. Da quanto tempo insegna qui in Friuli?». Gli anni scorrono veloci davanti agli occhi, le pareti dell’aula si aprono e quasi non esistono più. Magicamente mi ritrovo al 10 novembre 2016, sul mio letto, nella mia stanza, nella mia casa di Bivona, nella mia personale “Casa del Nespolo” di verghiana memoria. Mio padre che, come al solito, alle sette e trenta del mattino, “urla” a telefono e mia sorella che prepara il caffè in cucina. 
Apro gli occhi e arriva la telefonata attesissima «E’ la Segreteria dell’Istituto Comprensivo di Tolmezzo, abbiamo ricevuto la sua lettera di messa a disposizione e avremmo bisogno di un supplente. Accetta il posto?». Credetemi: non ho capito neanche il nome del paese, tanto ero assonnacchiato. L’unica cosa che sono stato in grado di dire è: «Accetto!». Sobbalzo dal letto e come un pazzo inizio ad urlare : «Ho ricevuto la chiamata! Ho ricevuto la chiamata!». Tuttora sono convinto che mio padre abbia pensato: «Ecco! Mio figlio ha sentito la chiamata … macari m’ addiventa puru parrinu!» 

In quel momento non avevo tempo di spiegare e mi misi al computer. Apro la finestra di Google e scrivo sul motore di ricerca la parola chiave “Tolmezzano”. Google mi suggerisce “forse cercavi Tolmezzo” e da buon complottista penso che forse Google avesse ascoltato la mia telefonata! Trovo il paesino su Google Maps. Prenoto l’aereo. Faccio la valigia. Saluto velocemente i miei amici e parto in fretta e furia.

In tarda nottata, dopo due aerei, un treno e un autobus, finalmente arrivo a Tolmezzo (frattanto ho imparato il nome del paese!). Il mattino seguente, mi presento in segreteria per la presa di servizio e firmo le mie prime scartoffie burocratiche. Nel congedarmi, una delle due gentili segretarie, pronuncia una frase che da lì a poco mi avrebbe confuso le idee: «Mandi mandi prof!». Nel corridoio, che mi portava in classe, penso: ma mando cosa e a chi? Ritorno nuovamente in segreteria e chiedo: «Scusate ma mando cosa e a chi?» «Prof, lei non deve mandare niente a nessuno!» «Scusate, avrò capito male. Arrivederci!» «Mandi mandi prof!» Arré! Per fortuna interviene una provvidenziale bidella, che, con fare materno, si avvicina e, prendendomi sottobraccio, come Virgilio con Dante, mi sussurra: «Prof, non si preoccupi. Non deve mandare niente. Mandi mandi, nel dialetto carnico-friulano, è un saluto e significa va’ con Dio.» Dopo tutti i riti scaramantici, entro in classe. Ho mille interrogativi, ma una cosa so di sicuro: questi carnici-friulani mi hanno già conquistato. 

Da lì a qualche giorno avrei notato che anche loro, come noi bivonesi, sono leali, credono nell'amicizia, sono generosi e amano il dialetto, le tradizioni, la storia del proprio territorio, il cibo e il buon vino. Per caso, prima di me, è passato da queste parti un bivonese? 
In poco tempo ho conosciuto la mia seconda famiglia. Di sti novi parenti potrei scrivere pagine e pagine di amicizia vera e vissuta. Ma basta dire che, quando ho saputo del male che aveva colpito mio padre, si sono attaccati al mio fianco, come un polipo allo scoglio, e non hanno mollato la presa di un centimetro. Nella stessa maniera in cui le donne e gli uomini di Bivona non mi hanno mai lasciato da solo, dopo aver perso, da ragazzino, mia madre. 

Totalmente assorto nel ricordo, mi risveglio al suono della campanella che stabilisce la fine della lezione. Nella fugacità della vita contemporanea, quasi improvvisamente, mi ritrovo a sperimentare la didattica a distanza. Tra una videolezione e un’altra, giusto stamane i miei alunni mi chiedono, ancora una volta, dei miei compaesani e racconto loro delle tante associazioni che fanno a gara di solidarietà, dei volontari che portano la spesa a domicilio per le persone più fragili, e dei tanti medici e infermieri, che stanno sempre in prima linea e mai a lamentarsi. Nel mio racconto, mi soffermo anche sulle sarte che, senza i meritati riflettori, cuciono le mascherine per i propri concittadini. A questo punto un alunno mi fa notare: «Prof, ma se le sue compaesane fanno tutto questo nel silenzio, non c’è poi così tanta differenza con le Portatrici carniche, che durante la prima guerra mondiale, nel buio della notte, portavano le provviste ai propri mariti impegnati in trincea.» Taccio.

Capisco soltanto ora cosa significa Bivona per me. Bivona è lottare con tenacia contro un male invisibile, è dare sempre il meglio di sé, è cooperare per il bene comune, è la voglia di partire per poi tornare, è la forza di non essere ancorati ai bivonesi, ma avere sempre i bivonesi ancorati nel cuore ovunque io vada … Bivona è la mia personale “Casa del Nespolo”. 

Mandi mandi Bivona!
Giovanni Vacanti

Commenti

  1. Una lettura tra la commozione e l'affetto. Che tocca i ricordi. Un abbraccio a te e a tutti i figli che mancate tantissimo...

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  2. Bravo prof. Leggendo, già dalle prime frasi avevo capito che si trattata a del nostro amico prof. Giovanni. Come lei sa io e sicuramente i miei colleghi le diamo molto legati. Da noi è stato un bravo insegnante e nei miei confronti un amico davvero straordinario. Grazie prof. per essere in mezzo a noi e con noi. Speriamo davvero di rivederci al più presto 👋👍

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