L'attesa del paesello (che non c'aspetta più)


In questi giorni di auto-isolamento indotto, un'inattesa abbondanza di tempo a nostra totale disposizione ci spinge ad un gesto fondamentale: la Riflessione
Si riflette su ogni cosa, un tutto che ruota essenzialmente su 3 temi, i soliti: presente, futuro e passato. Proprio con questo ordine di sequenza o di importanza.
Il presente e il futuro per affrontare quello che si sta vivendo e per capire come questo cambierà il nostro domani.
Il passato invece per trovare un po' di svago e serenità tra i ricordi che ci fanno stare bene in un momento in cui abbiamo tanto bisogno di fuggire da un'attualità a dir poco surreale.
Ed è proprio la parola "Ricordo" che più di tutti stimola il pensiero incentrato sulla terra natale.

Le ore di riflessione in questi giorni di libertà sospesa fanno sorgere tanti quesiti, tra cui uno bizzarro: nel costante piacere vissuto nell'attesa di tornare al paese natio, la sensazione di godimento è dettata maggiormente da quel posto che ci aspetta o dal ricordo di quel luogo che ci portiamo dentro? (un concetto un po' Marzulliano).

Ultimamente difatti non si è più certi se il paesello ci aspetta davvero (ancora), o se ci aspettiamo un luogo che in realtà non c'è più (oramai). 
Un paese, si, è fatto di viuzze, di piazze, di angoli, di panchine, di fontane, di alberi, cioè di cose che solitamente non se ne vanno e ci aspettano. Ma un paese è fondamentalmente fatto di altro: di Gente. Di individui che ci aspettano fino a un certo punto o che a volte non ci aspettano affatto.
Le persone son così, abitudinarie, pazienti, accondiscendenti. Ma c'è un limite a tutto, una soglia che spesso prende il nome di insopportabilità, soprattutto in questi nostri ultimi decenni di vita vissuta veloce e distratta.

Ogni individuo sopporta, tollera, accetta e acconsente, chi più chi meno, ma la versione 2.020 del paesello è in grado di minare anche i livelli più forti di indulgenza e resistenza. A tal punto che anche gli animi tradizionalmente resilienti, dopo l'ennesima impassibile dimostrazione di piattume, rivolgeranno lo sguardo altrove, un altrove che, mal che vada, sarà 500-700 km più a Nord.
Un piattume che agisce sulle menti di chi rimane. In pochi riescono a resistergli, sviluppando gli anticorpi essenziali a restare lucidi. Altri si immunizzano evitando di diventare fatalisti o disfattisti o ostili. In molti invece ne vengono inghiottiti, prendendone le sembianze, incupendo il territorio con cui condividono il quotidiano, e generando quel campo magnetico inverso che (nel medio-lungo termine) tiene lontani coloro i quali valicano i confini nativi.
E così anno dopo anno le persone che se ne vanno sono sempre di più, quelle che tornano sono sempre meno, quelle che restano sono sempre più annoiate, demotivate o astiose, e il luogo che attendiamo (almeno una volta l'anno) si trasforma in qualcosa che non ci aspettavamo. 
Ma forse vale anche il viceversa. È anche il paese natio a non aspettarci più. Amareggiato dall'evidenza di vedersi sempre più svuotato; deluso dal sentirsi ammorbato nella testa e nell'animo; o semplicemente arrabbiato dal fatto di sapersi abbandonato, il buon paesello magari non è poi più così disponibile a riabbracciarci al nostro ritorno, anche perché non è detto che sia in grado di riconoscerci. Ma non perché il luogo che ci ha visti crescere sia invecchiato nella vista ma essenzialmente perché siamo noi a essere cambiati, innanzitutto nelle aspettative.

Ogni anno, in fase di ritorno, inganniamo noi stessi nella speranza che non sia come l'ultima volta, ma spesso va a finire che non solo non è alla pari dell'anno prima, ma è pure peggio. Peggio, a meno di chi nella terra d'origine (tra i piattume-immuni) ci riempie sempre l'animo di buoni sentimenti e ricordi: i nostri genitori. Sono tra i pochi che ci aspettano sempre, a prescindere, e dei quali le nostre attese non sono mai deluse. Per quanto a lungo possiamo mancare dal paesello, agli occhi attenti dei nostri genitori non saremo mai cambiati. Forse smagriti, trascurati, ma mai snaturati. Il tempo e la lontananza non hanno mai effetto sullo sguardo intimo con cui veniamo scannerizzati da chi ci ha messo al mondo proprio in quel luogo unico. E questo Bene non può che imporsi su qualunque altro legame interrotto tenti di istigarci al non ritorno.

Alla fine ce ne siamo andati dal nostro territorio spinti dal desiderio di cambiamento ma anche col terrore del cambiamento. Una sensazione complessa da capire e spiegare perché andrebbe provata per interiorizzarla.
Tutto ruota intorno all'idea di Metamorfosi pervasa dal concetto di Equilibrio, due piatti della stessa bilancia.
Si lascia il paese d'origine perché ad un certo momento la voglia di sfida prende il sopravvento sul genoma siculo della Lagnusia. E non è un momento banale, che si dimentica. Raggiunto pertanto il bordo della sgradevole ripetitività, la goccia del confronto ci spinge a valicare i limiti delle proprie prime mura, per proiettarci Oltre. Verso quel lato sconosciuto dell'oltre che lusinga la nostra fantasia ed esercita su di noi una pressione bilanciata che ci accompagna necessariamente a cambiare. 
Rimane però il lato conosciuto di quell'oltre (che si sta per abbandonare) che crea nostalgia, generando in noi la speranza che nulla cambi nel luogo in procinto di essere lasciato. La solita storiella psicologica del porto sicuro di cui ognuno di noi ha bisogno. Quello scalo-rifugio che conosciamo da una vita e che egoisticamente vorremmo continuare a conoscere nonostante non vivremo più il suo quotidiano. Insomma quell'equilibrio che ci portiamo dentro e che, per controbilanciare il desiderio di cambiamento, centelliniamo, facendo abitualmente leva sulla fermezza delle radici che fanno partire la nostra storia da una geografia permanente, di cui ci vantiamo finanche ci spostassimo a vivere ai suoi antipodi (...ai confini del mondo!).

Ecco forse l'origine primordiale e le vere ragioni che motivano (più di ogni altro aspetto) il nostro ritorno al paesello nonostante le aspettative di frequente disattese (...da entrambe le parti). 
Il carburante che alimenta il motore di questo duraturo andirivieni è perciò banalmente una miscela di sentimenti contrastanti. Curiosità, egoismo, illusione e voglia: la curiosità di vedere se laggiù qualcosa sia finalmente cambiato; l'egoismo che tutto sia rimasto immutato; l'illusione che quel luogo resti sempre adatto alle nostre esigenze (mutevoli); la voglia di scalfire col nostro nome un pezzo di storia del posto che ci ha dato i natali.

Tempo, riflessioni, ricordi e timore. Elementi che si accavallano interconnessi tra presente, futuro e passato, in un momento di tale indecisione storica e sociale che forse per la prima volta si vive nell'apprensione di non poter far ritorno nel borgo d'origine la prossima estate (...l'unica opportunità dell'anno oramai). Di "non Poter", che è diametralmente distante dal "non Voler". Perché la volontà di tornare laggiù può anche vacillare a volte, ma alla fine non scompare mai del tutto. Ma adesso la sensazione è ben diversa. Ciò che si prova ora è pura impotenza, partorita da un virus che ci ha isolati a casa nostra, un po' come il nostro paesello si è sentito negli ultimi decenni: isolato a casa propria!
Mai come oggi riusciamo dunque a immedesimarci e a essere empatici verso quel luogo natio inaspritosi ma da noi mai dimenticato. Finalmente non abbiamo più scuse per indugiare nelle nostre riflessioni. Ecco il tema dei temi! Ecco il principe degli argomenti che più di tutti lega la lontananza, il ritorno, il cambiamento, l'equilibrio e il ricordo, su i quali il nostro pensiero in questi giorni freneticamente insiste: l'isolamento a casa propria. Una prigionia strana all'inizio, ma che, per quanto smussata da pareti amiche, rimane sempre una segregazione che a tendere destabilizza e attenua le motivazioni personali. Il suo effetto è più lento se paragonato ad un'emarginazione vissuta in un luogo diverso da quello chiamato "casa", ma se l'esposizione si prolunga (passando dalle settimane/mesi agli anni) le conseguenze procurano cicatrici psicologiche profonde a tal punto che la reversibilità rischia di diventare un miraggio. E se l'isolamento fa male, esiste qualcosa di ancor più nocivo: l'isolamento nell'isolamento.

Eppure la nostra clausura sta per finire, o meglio, presto o tardi finirà. Circoscritto il virus, potremo uscire dai domiciliari, di nuovo incoscientemente liberi. Possibilmente cambiati rispetto a prima, in un mondo certamente dissimile da quello di qualche mese fa, ma in ogni modo liberi. Non torneremo alla normalità perché quella normalità era il vero problema, ma comunque torneremo. E invece il nostro paesello NO! Seppur fuori pericolo dall'isolamento virale (...quindi non più isolato al quadrato ma "semplicemente" isolato), rimarrà laggiù in stallo, in attesa, aspettando che i suoi figliol prodighi dal "nordE" tornino alla base per provare a spezzare il sortilegio dell'isolamento più inquietante, quello evolutivo. Una magarìa molto più forte e duratura del Covid19. Da un lato il coronavirus toglie il fiato e a volte la vita, maggiormente ai meno giovani. Dall'altro questa magarìa non toglie la vita ma l'appiattisce, innanzitutto ai più giovani, ma senza risparmiare nessuno, giorno dopo giorno, inesorabilmente. Ed è pesante decidere cosa sia più fatale, specie nell'attesa del ritorno in quel Porto che forse, avvilito e affranto, non c'aspetta più. O chissà, ...che non smetterà mai di aspettarci (...non smettendo mai di sperare in un nuovo Rinascimento).


Mauro Benasio

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