L'arringa



Signor Presidente, Signori della Corte, credo che sia fondamentale, al fine di giungere ad una sentenza di assoluzione a favore dell’imputata, sottoporre alla vostra attenzione alcuni aspetti emersi durante l’istruttoria dibattimentale che, a mio avviso, sono importanti per dimostrare la totale estraneità ai fatti contestati alla mia assistita nei capi d'imputazione.

Quello che mi accingo a fare è di integrare il contenuto delle affermazioni rese dai testimoni chiamati in questo dibattimento. 
Certo, non tutte le testimonianze a difesa hanno mitigato la gravità dei fatti, qualcuna di esse è stata aspra, a tratti disillusa, ma vostro onore, nessuno e dico nessuno che si è seduto al banco dei testimoni può affermare di non provare affetto, riconoscenza e gratitudine nei confronti dell’imputata. 

I capi di accusa sono gravi e sono stati già ampiamente dibattuti: esigue possibilità lavorative e stimoli quasi assenti con conseguente emorragia migratoria, assenza di viabilità degna di questo nome, di efficienti e moderne strutture sanitarie pubbliche… 
Pensi, Signor Presidente, che nelle vicinanze dell’imputata non è presente un pronto soccorso né tanto meno una sala di rianimazione, e noi sappiamo bene come in questo momento sia fondamentale, come possa fare la differenza! 

Ma mi permetta una divagazione Signor Presidente: le sale di rianimazione sono sempre importanti perché, con i dovuti scongiuri, “un colpo” ti può venire quando meno te l’aspetti e se ti trovi presso l’imputata pò moriri 100 voti prima che arrivino i soccorsi. 

Altri capi di accusa che gravano sulla mia assistita e sui suoi abitanti sono: la violazione della privacy altrui, l’incapacità di alcuni di pensare esclusivamente ai fatti propri, la fervida fantasia nell'abbellire o addirittura creare ex novo eventi di cui non si ha la ben minima conoscenza e molto altro ancora che non mi dilungo a ripetere.

Non sarò certo io a negare l’evidenza ma mi chiedo e le chiedo, Signor Presidente, se dovessimo dar credito alle accuse del Pubblico Ministero, dovremmo condannare e rinchiudere nelle patrie galere non solo l’imputata ma tutti i piccoli centri abitati d’Italia? 
Il Pubblico Ministero che, per inciso, non essendo nato e non avendo mai vissuto presso la mia assistita, non è in grado di percepirne le dinamiche e di conseguenza ha formulato un’accusa di massa, contestando ad essa e ai suoi cittadini condotte illecite senza precisare il contributo attivo, od omissivo, di ciascuno di loro e neanche una collocazione temporale. 

Ora, Signor Presidente, vogliamo caricare sulle spalle dell’imputata e dei suoi abitanti condotte illecite che appartengono a tutti i piccoli centri? Non credo proprio, non sarebbe giusto. 
Per quanto riguarda i suoi abitanti, Signor Presidente, è chiaro che si arriva ad un punto della vita in cui si deve decidere dove mettere radici, un punto dove bisogna fare una scelta e ogni scelta si sa, implica benefici ma anche tante rinunce. 
Ogni persona ha delle priorità che non possono essere oggettivamente giuste o sbagliate, ma ci sono priorità giuste per ognuno. Per alcuni le priorità sono state e sono di vivere vicino alla propria famiglia, alla gente che li ha visti crescere, nei luoghi a loro tanto cari. 
Potremmo chiedere loro se hanno avuto mai ripensamenti, sicuramente risponderebbero “a centinaia”. Se hanno mai pensato di aver preso la decisione sbagliata? Forse svariate volte. 
Ma poi puntualmente, quando tornano a riflettere sul perché sono voluti restare, concludono convinti che desiderano vivere nell'unico posto al mondo che li fa sentire realmente a casa, che li fa sentire amati, dove ormai nessuno gli fa più la domanda "a cu apparteni?" ma "chi dicinu tò matri e tò patri”? 

E lì capiscono che non hanno sbagliato, che hanno preso la decisione giusta per loro. 
Evidentemente, questi sono bivonesi di scoglio e lo sono fino al midollo! 
Si sentono al sicuro solo sotto l'ombra di Pizzu di Naso e di lu Turcituri. La mattina hanno necessità di affacciarsi al balcone e vedere la diga tra uliveti e pescheti. 
Quando escono hanno il bisogno di sentire il loro dialetto, vedere gli anziani seduti nelle panchine, guardare i bambini che giocano gioiosi e liberi ‘ncapu lu chianu, bere l’acqua sempri frisca di li cannulicchi. Per loro il Venerdì Santo non sarebbe lo stesso senza processione dietro la vara, senza pupulu me e senza pasta cu li sardi, per San Giuseppe devono dare onore a quelle famiglie devote che con l’aiuto di mezzu paisi ficiru la tavulata. Per loro la propria pesca “è la piu’ buona”, il 4 settembre non è fera senza la scinnuta di Santa Rosalia e senza scrusciu di cubata e per San Francesco l’appuntamento è a li cappuccini pi la missa e lu pani binidittu. 

Signor Presidente, ho spulciato tutte le memorie depositate e sono sicura di non avere contraddittorio nell'affermare che Bivona e i suoi cittadini hanno dato il meglio di sé durante questa pandemia
Addirittura c’è chi prima del coronavirus credeva nella veridicità del detto "la famiglia è a la chiujuta di la porta", ma adesso questa convinzione ha lasciato posto ad un concetto di famiglia più elastico, che a volte comprende solo marito e figli, a volte include genitori, fratelli e sorelle, a volte parenti e amici, altre volte addirittura tutti i compaesani! 
L'arrivo della pandemia non ha fatto altro che evidenziare questa sfaccettatura, questo senso di appartenenza, questo essere famiglia. 
Lo si percepisce dagli sguardi che i bivonesi si lanciano aldilà delle mascherine, sguardi che dicono tutto, che esprimono paura per questo nemico che neanche nel peggiore incubo potevano immaginare, sguardi in cui cogli il dispiacere per non aver potuto salutare con un degno funerale chi li ha lasciati in questo periodo, per non aver potuto festeggiare i lieti eventi: nascite, lauree, compleanni, ricorrenze e feste varie. 

A volte, il fatto di conoscere anche le pietre di un luogo è un pregio e non un difetto. 
Così, in un momento di smarrimento come questo, la piccola famiglia bivonese si è stretta in un lungo abbraccio virtuale, col solo bisogno di carpirne il tepore e di dire grazie a tutti quelli che hanno continuato a lavorare per garantire sicurezza e servizi di prima necessità. Mi riferisco ai medici, al personale sanitario e ai farmacisti che hanno lavorato instancabilmente, ai carabinieri e alla polizia municipale che hanno vegliato su di loro, al loro parroco che non si è risparmiato di fare sentire, seppur virtualmente, la sua presenza, agli amministratori che non li hanno fatti sentire abbandonati a se stessi, ai ragazzi del servizio sociale e del servizio civile che non hanno lasciato soli gli anziani e le persone deboli della comunità, alle donne e agli uomini che hanno realizzato le mascherine, a chi ha provveduto alla sanificazione, alle attività commerciali, agli impiegati, agli operai, agli insegnanti, alle associazioni che si sono prodigate in favore della cittadinanza e chissà quanti ne sto dimenticando che hanno continuato a fare il loro dovere. 

Ho la sensazione, Signori della Corte, che questo coronavirus qualcosina di buono l'abbia portato, ha dato ad ognuno la possibilità di prendersi cura dell’altro, senza timore e senza vergogna e questo lo si evince nella gara di solidarietà fatta da chi poteva verso chi aveva necessità. 
Questo è essere FAMIGLIA, questo è il collante che rende viva e unita una comunità, che le restituisce il senso di appartenenza, che ha fatto mettere da parte simpatie, idee politiche, fina li sciarri. 
Ci si sente come quando in una famiglia succede qualcosa di brutto e tutti i membri accorrono perché davanti a certi eventi i dissapori si mettono da parte. 

Sarebbe bellissimo che questa esperienza li cambiasse un po’, non dico tanto, giusto tanticchia, sarebbe magnifico essere un po’ più propositivi, vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, non lamentarsi del fatto che a Bivona non c'è niente se poi quando si organizza qualche evento non si partecipa, non lagnarsi del fatto che non c’è nessuno in giro se poi gli stessi non escono. Bisognerebbe che si chiedessero ogni tanto: “cosa posso fare io per questa terra che mi ha visto nascere, crescere e che mi ha dato le basi per diventare quello che sono?” 

Signor Presidente, sono tanto orgogliosi di cu niscì e arriniscì, di quei bivonesi di mare aperto che non dimenticano da dove vengono, di chi si sente vivunisi anche se ormai è da una vita che si trova nell'altro emisfero della terra, di quelli che tornano a trovarli per qualche settimana all'anno, come lo sono altrettanto di chi vi è rimasto, di chi ha studiato, viaggiato per poi tornare a vivere a Bivona, di chi non è mai partito perché ancorato da profonde radici, di chi è vivunisi di adozione, di chi ha investito tempo, sudore e denaro a Bivona, di chi ha aperto un’attività, di coloro che hanno deciso di puntare sull'agricoltura, di chi giornalmente fa km su km per andare a lavorare fuori pur di non lasciare il proprio paesello. 

Signor Presidente, Signori della Corte, questo è stato un processo indiziario e l’indizio, sappiamo bene, non è una prova! 
Per questo Vi chiedo l’assoluzione con formula piena perché il fatto non costituisce reato e l’immediata liberazione dell’imputata se non detenuta per altra causa.

Rosamaria Cannella

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